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Elena Piffero: «Unschooling e “la famiglia nel bosco”: troppe strumentalizzazioni»

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In merito alla vicenda della famiglia di Chieti ai cui genitori è stata sospesa la potestà genitoriale e i cui tre figli sono stati collocati in una struttura con la madre, interviene Elena Piffero, autrice del libro “Io imparo da solo. L'apprendimento spontaneo e la filosofia dell'unschooling”.

Elena Piffero: «Unschooling e “la famiglia nel bosco”: troppe strumentalizzazioni»

In merito alla vicenda della famiglia di Chieti ai cui genitori è stata sospesa la potestà genitoriale e i cui tre figli sono stati collocati in una struttura con la madre, interviene Elena Piffero, autrice del libro “Io imparo da solo. L’apprendimento spontaneo e la filosofia dell’unschooling”

Elena Piffero ha conseguito un dottorato in Cooperazione internazionale e politiche per lo sviluppo sostenibile all’Università di Bologna ed è ricercatrice in Sociologia della Famiglia. Vive in un casolare nella campagna modenese con il marito e i quattro figli, e si occupa di sostenibilità nella vita quotidiana.  È un’attivista sociale e ambientale con una forte convinzione: imparare vivendo e vivere per imparare costituisce un’avventura affascinante che arricchisce l’esistenza.

«Mi è impossibile non esprimermi sulla vicenda di quella che ormai è chiamata “la famiglia nel bosco“, specialmente perché riguarda la sfera dell’educazione dei bambini, che seguivano un approccio che i genitori hanno definito unschooling. L’unschooling si fonda sul riconoscimento delle innate capacità di apprendimento dei bambini, che sono biologicamente programmati da millenni di evoluzione per imparare. Lo fanno, in maniera del tutto spontanea, da quando sono ancora nel ventre materno: si sa ormai che i bambini identificano le voci della mamma e dei familiari più stretti ancora prima di nascere, sanno riconoscere la cadenza della lingua parlata da chi li circonda, e alcuni studi hanno dimostrato che se sentono una lingua straniera addirittura si concentrano di più. L’ignoto, il diverso, li incuriosisce e li spinge a cercare di darvi un senso. Un bambino, senza alcuna lezione “formale”, impara da solo la prima lingua (ma anche la seconda, nel caso di famiglie bilingue), impara a gattonare e poi a camminare, impara a muoversi nel mondo culturale di appartenenza con uno sforzo autonomo. Per incoraggiare questo sforzo, la cosa migliore che i genitori possano fare è offrire un ambiente accogliente e accudente, di supporto, e offrire il più ampio accesso possibile alle opportunità culturali, intellettuali e sociali che la comunità mette a disposizione: in questo contesto, in tutte le comunità umane, i bambini sono sempre riusciti a imparare quello che più conta per essere parte attiva e integrante della società a cui appartengono.
L’unschooling semplicemente estende anche oltre i 6 anni di età la convinzione che i bambini imparano lo stesso, anzi imparano meglio, senza insegnamenti impartiti formalmente da altri ma guidati dalla loro curiosità e dal desiderio di diventare “grandi” come gli adulti intorno a loro. L’esperienza di migliaia di unschooler intorno al mondo, e anche la nostra, dimostra che anche la lettoscrittura, la matematica, la conoscenza della storia, un certo sguardo scientifico sui fenomeni possono essere serenamente fatti propri dai bambini senza scuola. Chiaramente, i tempi e i modi non saranno gli stessi di chi è scolarizzato, ma del resto non esistono basi scientifiche che giustifichino né le tempistiche né i metodi di insegnamento adottati nelle scuole, che quindi dovrebbero giustamente essere presi per così dire con le pinze. Auto-motivato, il percorso di apprendimento spontaneo alla base dell’unschooling è indubbiamente più gratificante del percorso strutturato e rigido di quello scolastico standard.

E qui una prima riflessione: il diritto/dovere di educare i figli è posto in capo ai genitori dalla Costituzione Italiana, che sostiene anche che libera è la scienza e libero il suo insegnamento. Ora, dal momento che l’istruzione parentale in Italia è riconosciuta legalmente e che finora non è emersa a quanto ne sappiamo alcuna evidenza scientifica che supporti l’assoluta necessità di adottare pratiche educative che replichino quelle scolastiche, la scelta della famiglia rispetto all’approccio educativo può essere certo oggetto di dibattito e discussione (anzi, sarebbe il caso che di unschooling si parlasse e si discutesse di più, con consapevolezza, e non solo quando diventa oggetto di cronaca), ma non può diventare giustificazione per mettere in questione la capacità genitoriale, nemmeno in parte. Squalificare un approccio educativo la cui efficacia è supportata da importanti evidenze scientifiche (neurobiologia dell’apprendimento, antropologia, psicologia dell’età evolutiva) al punto da trasformarlo in una prova di inadeguatezza genitoriale nei confronti dei figli è a mio avviso un’assurdità. Non tiene in conto non solo la solidità scientifica dell’unschooling, ma nemmeno la grande assunzione di responsabilità che comporta da parte della famiglia che decide di abbracciarlo: esserci, sostenere, accompagnare, incoraggiare, accettare di diventare in primis responsabili per la creazione di un contesto favorevole al pieno sviluppo della persona umana, senza delegare e quindi accettando anche il rischio dell’insuccesso e le difficoltà che comporta è segno di un grande impegno nei confronti dei propri figli. Perché non va mai dimenticato che l’educazione non è un’azione ma una relazione: chi la delega è un genitore più capace di chi se ne fa carico?

E qui nasce la seconda riflessione: ho letto di una “lesione del diritto alla vita di relazione”, e mi domando quale diritto alla relazione si tuteli esattamente sottraendo i bambini alla relazione non solo educativa, ma psicologica ed affettiva principale che è e deve essere, specie a quell’età (stiamo parlando di 8 e 6 anni), quella con i genitori. Credo che agisca in questo un pregiudizio radicato nei confronti di chi pratica l’istruzione parentale, ossia che ai bambini venga impedita una corretta socializzazione. Non voglio aprire un dibattito sulla natura e le pratiche della socializzazione all’interno degli ambienti scolastici, che meriterebbe un’analisi a parte (solo per dire, fatto salvo l’intervallo, in genere le chiacchiere e le risate con i compagni sono sanzionate… e allora come si socializza?), ma voglio soffermarmi sul fatto che la socializzazione a 6-8 anni non può e non dovrebbe dipendere solo dalla scuola o dalle “attività ricreative o sportive”. Se, come sostenuto dalla famiglia in un’intervista, esiste una rete di famiglie neorurali con cui è consuetudine ritrovarsi, e i bambini frequentano il parco e la biblioteca, non si può certo parlare di isolamento sociale. La socializzazione è transgenerazionale, non può essere relegata al rapporto con i coetanei, tanto meno se strutturato, anche se questo ha certamente un ruolo. In un quotidiano si alludeva con una nota di biasimo al fatto che ai bambini del bosco venisse consentito di socializzare solo con altri bambini che non possedevano smartphone: e vorrei vedere! Mi sembra surreale che a qualcuno venga in mente di regalare uno smartphone a un bimbo di quell’età, e spero che la platea di potenziali amichetti sia quindi ben più ampia di quanto il giornalista abbia voluto suggerire. In caso contrario, il problema sarebbero semmai quei genitori che con nonchalance affidano uno strumento così potenzialmente dirompente nelle mani di chi non ha assolutamente la capacità di utilizzarlo senza “farsi male”. In quanto alla scelta di frequentare solo persone con una cultura familiare simile, certamente se ne può discutere, ma, se fosse una pregiudiziale alla capacità genitoriale, moltissimi gruppi religiosi, con figli mandati in scuole religiose e inseriti in attività ricreative religiose dovrebbero essere a rischio di vedersi sottratti i figli, e senza nemmeno scomodare gli Amish americani. Del resto, non è un istinto genitoriale universale quello di inserire i propri figli in gruppi sentiti come culturalmente affini? C’è chi cambia quartiere, o iscrive i figli a scuole private perché meno frequentate da stranieri… e allora dove tracciare il limite del consentito? Cercare di vivere plastic-free e frequentare persone che fanno lo stesso compromette la capacità genitoriale? E perché, dato che gli studi sulla nocività della plastica abbondano? Solo perché questi studi sono stati presi troppo sul serio non si è più bravi genitori? Direi che siamo in presenza di un cortocircuito logico.

Ultima riflessione è sull’accertamento al dovere di istruzione, che sembra anch’esso oggetto di disputa. Non conosco la situazione se non per quello che sono riuscita a leggere sui giornali, ma il sospetto che sia stata messa in dubbio la validità dell’esame di accertamento sostenuto a scuola (esame richiesto annualmente dalla legge a chi sceglie l’istruzione parentale) ha scatenato molta inquietudine tra le famiglie unschooler che conosco. Il momento dell’accertamento per noi è delicatissimo: troppo spesso veniamo accolti con sospetto o aperta ostilità dalle autorità scolastiche, che non riconoscono il fatto che la nostra sia una scelta “diversa” ma non necessariamente “contro” di loro. La rigidità con cui l’esistenza di “programmi scolastici”, identificati con i libri di testo in adozione, è ancora sostenuta da molti insegnanti contraddice la flessibilità e la necessità di personalizzazione introdotte dalle Indicazioni Nazionali del Curricolo 2012, che di fatto ha cancellato i programmi (ma molti insegnanti lo ignorano). Il fatto che l’apprendimento fuori dalla scuola si sviluppi con tempistiche, modalità, contenuti diversi da quelli proposti dalla scuola non viene riconosciuto, e gli unici parametri che vengono fatti valere sono quelli scolastici, e questo ci mette spesso in difficoltà oltre a non essere in linea con il dettato di legge. In un articolo di giornale gli educatori hanno definito la bimba di 8 anni come una “no-schooling”, che non conosce la grammatica e la matematica e la cui conoscenza è frammentaria e anarchica: sarebbe interessante capire sulla base di quali test queste conclusioni sono state tratte, perché spesso anche le modalità di verifica, improntate a quelle scolastiche, non consentono di apprezzare la ricchezza di un percorso diverso, che per quanto apparentemente disordinato ha una sua coerenza organica. La matematica è stata testata con esercizi scritti? Con esempi di vita pratica? Non ci è dato saperlo, ma in molti casi farebbe la differenza tra competenza acquisita o meno. Su una base didattico-pedagogica, persino lo studio della grammatica come essenziale allo sviluppo delle competenze linguistiche può essere messo in discussione: i nostri figli, ad esempio, hanno affinato le capacità di espressione attraverso la lettura, tantissima lettura, ma non abbiamo mai affrontato in modo strutturato la grammatica. Eppure la grande, che ha 15 anni, nel tema dell’esame di Stato di terza media ha ricevuto un 10 e i complimenti dell’insegnante… 

Sta di fatto che, pur con tutti i limiti e le difficoltà che ci pone, questo fatidico esame di accertamento è un baluardo di difesa nei confronti di chi accampa accuse di negligenza rispetto all’adeguatezza dell’istruzione che offriamo ai nostri figli; vederlo messo in discussione ci spaventa molto.

Credo che in definitiva a inquietare rispetto a questa vicenda sia l’arbitrarietà che pare trapelare (dico pare perché non ci è dato accedere a tutte le carte) rispetto a una serie di scelte tutte opinabili ma nessuna delle quali, e nemmeno messe insieme, sembra tale da pregiudicare la capacità dei due genitori di prendersi cura dei bambini e di offrire un’educazione “che sviluppi la [loro] personalità, le capacità e il rispetto dei diritti, dei valori, delle culture degli altri popoli e dell’ambiente”, come stabilisce la Convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Laddove si fossero intraviste delle criticità, l’impressione è che si sia data una lettura riduzionista ma soprattutto che non si siano tentate tutte le strade per evitare l’allontanamento, che dovrebbe essere sempre e comunque l’ultima ratio, per la frattura emotiva, il trauma, la sofferenza che comporta prima di tutto nei bambini; e questo fa paura perché fa sentire un po’ tutti, ma specialmente chi esce dal sentiero più battuto, più vulnerabili e senza tutele. C’è solo da augurarsi che non sia intenzionale, perché sennò saremmo su una china pericolosissima».

PER APPROFONDIRE

Io imparo da solo. L’apprendimento spontaneo e la filosofia dell’unschooling

L’apprendimento spontaneo in un ambiente familiare e sociale incoraggiante e ricco di stimoli, costituisce un valido percorso di istruzione, anzi di autoistruzione, in grado di sostituire quello scolastico. I bambini semplicemente continuano, come hanno fatto in millenni di evoluzione, a imparare da soli: sono biologicamente programmati per farlo e non ne possono fare a meno. Le numerose esperienze di unschooling sparse per il mondo ci dimostrano che i bambini, anche senza un programma didattico prestabilito e imposto dall’esterno, sviluppano con successo le loro capacità in autonomia, seguendo i propri ritmi. Rifacendosi a un nutrito corpus di studi sull’apprendimento, le neuroscienze e la psicologia dell’età evolutiva, questo libro racconta come e perché adottare l’unschooling, riportando con decisione al centro del dibattito sull’educazione i legittimi protagonisti: i bambini.

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