Butterly dalla Sumud Flotilla: «Questo tempo ci chiama a testimoniare e agire»
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Caoimhe Butterly è un'attivista irlandese che da tempo si batte per i diritti umani e la giustizia sociale. Ora è imbarcata sulla nave del team legale della Global Sumud Flotilla (GSF) e Giuditta Pellegrini l'ha intervistata per noi.
Testo e foto di Giuditta Pellegrini
Caoimhe Butterly è un’attivista irlandese che da tempo si batte per i diritti umani e la giustizia sociale. Ora è imbarcata sulla nave del team legale della Global Sumud Flotilla (GSF). In precedenza si era unita alla prima tappa dell’Handala, l’imbarcazione della Freedom Flotilla Coalition che questa estate ha tentato di rompere l’assedio di Gaza con il suo carico di beni salvavita e giocattoli destinati ai bambini.
Sull’imbarcazione su cui attualmente si trova Caoimhe, dedicata peraltro alla giornalista palestinese Shireen Abu Akle uccisa a Jenin nel 2022 dalle forze di occupazione israeliane, viaggiano legali e osservatori internazionali, che hanno il compito di testimoniare le violazioni del diritto da parte di Israele e di difendere gli attivisti a bordo delle flottiglia in caso di sequestri e arresti, come quelli avvenuti nelle precedenti missioni.
La sua attività come psicoterapeuta, ha portato Caoimhe a lavorare a Haiti, Guatemala, Messico, Iraq, Libano e nel Mediterraneo, dando supporto ai rifugiati nel superamento dei traumi e come educatrice dello sviluppo critico. Conosce particolarmente bene il contesto palestinese e di Gaza, dove ha vissuto lavorando come volontaria in diverse associazioni quali l’International Solidarity Movement (ISM) e la Mezza Luna Rossa. La drammaticità della situazione l’ha portata a partecipare a passate missioni a bordo di navi solidali in rotta verso Gaza.
Caoimhe è partita, insieme al resto del team, dai porti siciliani e nei giorni scorsi ha anche partecipato a un incontro organizzato dall’USB in vista dello sciopero generale proclamato per il 22 settembre insieme al Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali Calp di Genova, che prevede di bloccare la produzione a sostegno della GSF e del popolo palestinese.
Caoimhe, la dedica di questa barca a Shireen Abu Akle è fortemente simbolica, ce ne puoi parlare?
«La barca del team legale ha il compito di supportare la flottiglia nel quadro del diritto internazionale. A bordo ci sono avvocati per i diritti umani e osservatori della legalità da Sud Africa, Irlanda, Canada, Tunisia, Croazia. La ragione per cui abbiamo scelto di dedicarla a Shreen, la coraggiosa giornalista palestinese assassinata, è che volevamo onorare il suo coraggio come simbolo della testimonianza. Nel contesto della guerra genocida di Israele i giornalisti, e in particolare le giornaliste, hanno lavorato con grande coraggio, cercando di raccontare le storie delle comunità oppresse. Abbiamo immagini create da un’artista irlandese di altri giornalisti uccisi a Gaza e in Cisgiordania, come Bisent, Hind, Sareen, che sono posizionate intorno alla barca durante la navigazione. Questa barca ha una forte presenza femminile nel team, il capitano è una donna, avvocatessa per i diritti umani, e sono donne anche la maggior parte dei membri dell’equipaggio e le organizzatrici. Vogliamo così pure dimostrare la nostra solidarietà con le donne palestinesi, non solo nel contesto del genocidio, ma nei 70 anni di occupazione. Durante il genocidio abbiamo visto il femminicidio diventare sistematico, con le donne come bersaglio della violenza militare, soprattutto madri, donne che lavorano nella sanità, giornaliste, contadine, avvocatesse. Nel dramma e nella devastazione di Gaza, stiamo cercando di focalizzarci anche su queste donne forti che raccontano la verità e che sono state in grado di svolgere il loro lavoro nonostante la violenza, dimostrando quanto sia potente l’azione collettiva, perché la solidarietà di Gaza è ancora molto forte».
È un’immagine forte anche perché rompe gli stereotipi.
«Sì, avere vissuto e lavorato a Gaza mi ha fatto capire quanto lo stereotipo sulle donne palestinesi, o arabe, sia tutto volto a diminuire la loro autorevolezza e il loro potere. Ma le donne palestinesi sono sempre state in prima linea, durante la prima Intifada non solo hanno sostenuto le comunità, ma hanno anche lottato per salvare le persone dalla fame forzata e dagli attacchi.

C’è un’iconografia che rappresenta le donne palestinesi che si fanno carico della lotta sulle loro spalle e non credo sia esagerata. Quindi la nostra barca vuole essere un tributo al ruolo delle donne nel percorso di liberazione del popolo palestinese».
Voi avete ribadito in più occasioni come la missione che avete intrapreso non sia solo una questione umanitaria, ma politica. Perché?
«Siamo molto consapevoli di questo, io ho partecipato a diverse missioni a Gaza, anche con Vittorio Arrigoni, compagno e amico. Il nostro messaggio è sempre stato che quando i governi falliscono noi salpiamo e continueremo a salpare. Ma dobbiamo essere molto attenti e consapevoli a non ridurre la richiesta di giustizia che arriva da Gaza in una questione meramente umanitaria. La lotta dei palestinesi non può essere ridotta a un sacco di farina: c’è una crisi umanitaria, ma la richiesta è molto più alta. Si chiede giustizia, libertà, dignità, libertà di movimento. C’è una questione umanitaria in corso come conseguenza di un’azione politica e dell’ingiustizia che essa porta con sé; si va molto oltre la richiesta di aprire un corridoio umanitario. Spero veramente che i bambini palestinesi possano non solo sopravvivere, ma sperimentare autentica gioia, libertà e ogni cosa che spetta ai bambini».
Tu hai vissuto a Gaza; che ricordo ne hai?
«Ho vissuto a Gaza e in Cisgiordania durante la seconda Intifada e ho visto i massacri che già allora venivano perpetrati dall’esercito Israeliano. Ho collaborato con la Mezzaluna Rossa palestinese e con la Palestinian Medical Relief Society. Sono molto grata di avere vissuto a Gaza in quegli anni, perché i miei ricordi non sono colonizzati solo da immagini di distruzione, di sofferenza. Conservo immagini di belle comunità che vivevano in un tempo non segnato solo dalla sofferenza e dalla sopravvivenza. Ringrazio di aver potuto vedere i miei fratelli e le mie sorelle palestinesi vivere in un tempo che non era definito solo dalla sopravvivenza. E quindi sto cercando in tutti i modi di mantenere vive quelle memorie, per contrastare questa sporcizia, per ricordare che c’è una forte e resiliente comunità di persone che continuerà, anche se sembra impossibile visto il grado di sofferenza che vediamo ora. Ma ogni giorno quando parlo con gli amici a Gaza della condizione in cui versano, si sente come il tessuto sociale sia ancora intatto, le persone si aiutano tra di loro, si supportano a vicenda e questo ci dice quanto questa lotta intergenerazionale stia andando avanti».
Alcune sere fa durante un incontro pubblico a Catania hai parlato della visione insita nella missione della Sumud Flotilla; in cosa consiste secondo te?
«Questo tempo ci chiama a testimoniare ed agire. Io ho partecipato a diverse missioni a bordo di barche solidali. Sono stata su imbarcazioni che sono riuscite ad arrivare a Gaza e su altre che sono state attaccate e fermate mentre tentavano di farlo. Il potere e l’unità di questa missione, come anche di Handala e della Madleen, e la capacità che hanno avuto di catturare l’immaginazione popolare è senza precedenti. Ma nessuna di esse avrebbero potuto esistere senza i tantissimi e meravigliosi compagni che hanno lavorato dietro le quinte. Mai come ora la terra e il mare devono essere una cosa sola. Non possiamo persistere nello stato di completa assenza di azione politica a cui assistiamo a livello globale. L’unica arma che ci rimane è cercare di fermare insieme la macchina della morte».
Caoimhe Butterly, nel suo ispiratore intervento durante l’incontro tenutosi a Catania, aveva anche detto: «Dopo 2 anni di cieco genocidio in streaming è il tempo per l’amore radicale e per un’azione radicale. E in questo radicalismo le manifestazioni, i boicottaggi sono tasselli di un tutto che concorre verso lo stesso obiettivo. Tutto è importante e dobbiamo fare ancora di più, per esempio mettendo in atto lo sciopero generale. Il modo in cui la popolazione palestinese affronta la diaspora ci dà la forza per andare avanti con gioia e coraggio. Quest’onda di solidarietà ci rappresenta tutti. Il mare che ci circonda è vibrante e forte. Siamo in un’epoca di grande dolore, di tempeste, ingiustizia, di violenza. Ma in tutto questo Gaza e la Palestina sono un faro di umanità che ci sta chiamando, chiedendoci di essere coraggiosi. Penso a tutte queste piccole barche, ognuna portando la sua piccola luce che punta su Gaza. Teniamo gli occhi su quei fari, trovando il nostro faro dentro di noi, e continuiamo a organizzarci».

