«Cattivo! Cattivo! Cattivo!»: l’editoriale di settembre
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Cosa ci aspetta con la riforma della legge sulla caccia? Condividiamo con chi ci segue anche sul web l’editoriale del direttore di Terra Nuova pubblicato sul numero di settembre della rivista.
«Avevo cinque anni quando vidi per la prima volta un cacciatore da vicino. Eravamo su un vecchio Intercity, io e mia madre, e nel nostro scompartimento salì un uomo vestito di verde, armato di fucile, con un portacartucce alla vita e un sacchetto trasparente pieno di uccelli morti. Rimasi pietrificato, poi indignato. Mi alzai e con le mani sui fianchi, rosso in volto, iniziai a gridare: “Cattivo! Cattivo! Cattivo!”. Mia madre, tra l’imbarazzo e la complicità, rimase in silenzio. Fu il cacciatore ad andarsene. Da allora la caccia diventò per me un simbolo d’invasione. La campagna in cui vivevo si trasformava, nei mesi autunnali, in un territorio di guerra. I sentieri si svuotavano di voci e si riempivano di spari. Niente più passeggiate, solo paura. Così, da bambino, iniziai a scrivere storie di ribellione: armate di giovani con bastoni contro uomini armati di fucili, in una visione romantica del bene contro il male.
Poi sono cresciuto. Ho capito che la realtà è più complessa. Che esistono anche cacciatori attenti, che conoscono la natura meglio di tanti ambientalisti da salotto, e che la crudeltà verso gli animali trova la sua forma più sistemica – e spesso invisibile – negli allevamenti intensivi. Ho anche riconosciuto che la mia rabbia era mossa da un senso di impotenza, da un bisogno di giustizia che non trovava spazio. Eppure una domanda continua a tornare: com’è possibile trovare piacere nell’uccidere un essere vivente? Chiamare «sport» ciò che comporta la morte?
Il nuovo Ddl sulla caccia, di cui parliamo in apertura del numero di settembre della rivista Terra Nuova, sembra voler dare voce proprio a questa idea: che uccidere nella natura, per divertimento o tradizione, sia legittimo, persino necessario. Come se l’istinto di dominio fosse un diritto da rivendicare. Ma è proprio qui che sento emergere un nodo ancora più profondo. Quando ci troviamo di fronte a qualcosa che ci indigna, la reazione istintiva è quella di giudicare, di puntare il dito, di voler cambiare l’altro. È comprensibile. Ma se ci fermiamo un istante, possiamo accorgerci che ciò che ci ferisce nel mondo esterno è spesso lo specchio di qualcosa che abita anche dentro di noi: contraddizioni, impulsi, desideri di controllo. Non c’è ecologia esterna senza ecologia interna, come ci ricorda, sempre nel numero di settembre della rivista, il maestro indiano Daaji. E forse è proprio da lì che bisogna partire. Cambiare il mondo è necessario, ma farlo senza lavorare su di sé rischia di diventare solo un altro modo per esercitare potere. Allora torno bambino su quel treno, e mi chiedo: chi era davvero il “cattivo”? Forse nessuno. O forse, come diceva Gandhi, “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Un cuore alla volta. A cominciare dal mio».
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