L'Aquila e i cento paesi del cratere sismico sono uno specchio rotto dove il paese si riflette. Con le sue virtù e le sue miserie. Solo dopo cinque anni i cantieri della ricostruzione sono arrivati nel centro storico del capoluogo e di qualche paese.
“La profezia di L’Aquil-app” è lo spunto di riflessione proposta da Terra Nuova di giugno.
Siamo all’Aquila, la terra che ha tremato fortissimo cinque anni fa e che oggi ha ancora ferite aperte. Di soldi ne servono tantissimi, si è calcolato un miliardo di euro l’anno, per concludere la grande opera in sette anni. Lo skyline della città è ora scandito ad un numero crescente di gru che si stagliano altissime. Si congetturano e si promuovono progetti milionari a corollario della ricostruzione fisica, in primis quello di fare del’Aquila una città smart, che in inglese significa intelligente, ma anche furba, altamente tecnologizzata e informatizzata, una Silicon Vally degli Appennini. Ma intanto la cosa più smart che centinaia e centinaia di giovani fanno è quella di emigrare, cinque mila l’ultimo anno, perché non c’è lavoro, e non c’è presente. Nasce dunque un pensiero: i muri delle case terremotate non vale la fatica a ricostruirle, se serviranno a rinchiudersi dentro, magari con una connessione internet ultra veloce, arroccati nel selfie dell’egoismo e dell’indifferenza. Se saranno riedificati di nuovo i labirinti dei divieti di accesso, e di sosta interiore. Bisogna rifare luoghi in cui accade la vita e a tal proposito L’Aquila non è affatto una città morta. Perché i luoghi più sono feriti più sono vivi. Perché puoi sognarci un futuro, immaginare un altrove. Avere il privilegio di commettere il fatale errore di scambiare una ricostruzione edilizia per la palingenesi dell’umanità.
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