Laif: «L’unschooling non è mancanza di socializzazione»
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«Sui media negli ultimi tempi si è parlato di unschooling e di presunta mancanza di socializzazione. Ma chiediamoci se quella della scuola di oggi è veramente socializzazione»: l’intervento di Sergio Leali, presidente di Laif.
Sergio Leali, presidente dell’Associazione per l’istruzione famigliare, interviene dopo il fatto della famiglia nel chietino che ha visto i provvedimenti nei confronti dei genitori e la sistemazione dei bambini in una comunità.
«Innanzi tutto l’unschooling consiste nell’assolvimento del dovere di istruzione mediante percorsi che non implicano il paradigma scolastico ma sono almeno altrettanto efficaci – spiega Leali – Sicuramente si può affermare che in quei casi non c’è una socializzazione come quella che si vive tra i banchi. Ma quella della scuola è un tipo di socializzazione veramente risolutiva della complessità e ricchezza che il termine presuppone? Se il termine socializzazione rappresenta quell’interazione tra il soggetto e gli altri componenti del consesso civile nella sua articolazione e poliedricità più estesa, la risposta alla domanda è “no”. È infatti un presupposto dello schema scolastico che i gruppi-classe siano formati quasi esclusivamente da coetanei, che l’autorità sia in capo a una sola figura, il docente, che il discente sia in subordine, che i ruoli e le dinamiche interne al gruppo-classe si mantengano quasi inalterate per tutto il ciclo di vita della classe stessa: il leader, il capro espiatorio, il seguace, il prediletto ecc. rimangono molto spesso gli stessi per tutto l’anno e anche oltre. La staticità di questi e altri fattori non corrisponde alla dinamicità dei ruoli che si verifica nelle interrelazioni che animano la società reale, la quale si pone comunque come la scena vera in cui il giovane si trova a vivere».
«Il consesso scolastico è connotato da una selezione assai drastica delle componenti che ne costituiscono i gruppi – scrive ancora Leali – Eppure, la relazione sociale è un fattore necessario, non solo per la crescita dell’essere umano e di tutti gli altri esseri viventi, è primariamente un presupposto di sopravvivenza. Quindi “l’allenamento” per una socialità complessa e incidente su tutte le componenti vitali di ogni soggetto è limitante che avvenga esclusivamente in un campo forzatamente e artificiosamente delimitato. In particolare, l’allenamento tra pari non tiene conto dell’articolazione delle dinamiche emozionali, progettuali e psico-fisiche che si generano nei rapporti con chi non è coetaneo. In altri termini, invece che praticare l’inclusione empatica e creativa con la ricchezza del contesto umano comunitario, negli ambiti scolastici tradizionali si separa, si orienta, si costringe l’attenzione su un’area fenomenica viziata da un’impostazione limitata concettualmente».
«La convivenza rigidamente organizzata per età anagrafica e per gruppi di coscritti, la loro autocelebrazione e contrapposizione agli altri gruppi di età è tipica delle organizzazioni militari e ha come finalità non il pieno sviluppo della persona, ma un efficiente reclutamento dei contingenti per l’ottimizzazione della prestazione – prosegue il presidente di Laif – Si riscontra traccia di questo concetto nelle abitudini e negli atteggiamenti correnti, come pure in alcune caratteristiche della nostra società: la stratificazione per età, che spesso sconfina nell’ostilità, nell’esclusione, se non nel bullismo».
Le relazioni con i non coetanei, prosegue Leali, «collocano invece il soggetto nel gioco delle relazioni in cui si trova a ricoprire di volta in volta ruoli diversificati e portatori di significato. Ad esempio, la relazione con un anziano o con un/a giovane di età diversa apre la scena su alcune sfaccettature esistenziali impossibili in un rapporto fra soli pari: la stessa persona ha allora modo di essere, a seconda delle circostanze, il leader, il sostenitore, il facilitatore, l’armonizzatore, il custode, il seguace, il prediletto ecc. Il/la giovane si trova quindi a esercitarsi per necessità nell’avvicendarsi dei ruoli; questo consente la percezione dei valori che ogni ruolo porta con sé e aiuta al riconoscimento dell’altro e alla conoscenza di sé. Si attiva così una rete di interazioni significative e generative di contenuti e di competenze relazionali di tipo intergenerazionale. Il vissuto nel cuore della società si svolge in tempi e luoghi che il flusso della vita reale continuamente adegua e configura. Questa articolazione non trova corrispondenza nella “palestra della vita” che vuole essere la scuola».
Come spiega Leali, «il presupposto dell’unschooling (apprendimento autoguidato) è quello di calarsi nella realtà, con le sue interconnessioni sociali e umane, di vivere in simbiosi con il contesto sociale, frequentando le persone, i gruppi, le associazioni, gli eventi e tutto quello che costituisce la vita dei territori. L’apprendente, accompagnato dagli adulti con un grado di prossimità commisurato alle stagioni della vita, entra quindi in contatto con ambienti altri da quello famigliare. In questo incontro trova gli stimoli che lo toccano e che provocano l’interesse all’approfondimento, alla conoscenza, all’esplorazione, alla relazione e alla collaborazione. Questo costituisce il percorso di apprendimento, sia cognitivo che sociale, e porta all’integrazione del singolo nella collettività, attraverso la condivisione dei saperi e delle competenze. L’integrazione avviene attraverso l’interazione diretta con vari componenti della società, grandi e piccoli, belli e brutti, non pre-selezionati in base a criteri astratti ma incontrati sulla base di attività e interessi concreti. Non c’è bisogno di forzare tali sviluppi: sono naturali, innati, spontanei. In tal modo prende corpo il concetto della comunità educante. Anche la forte propensione dell’unschooling a supportare il gioco libero facilita il processo di costruzione di relazioni spontanee e genuine, fatte di negoziazione e di scambio. La scuola propone invece simulazioni laboratoriali in un ambiente sostanzialmente chiuso e popolato sempre dagli stessi soggetti, per gran parte delle giornate, per nove mesi all’anno. E magari anche oltre, perché anche durante le vacanze vale lo stesso concetto. È assai povera quella società che circoscrive la socializzazione principalmente all’ambito scolastico. La socializzazione, invece, va ben oltre questa fase, comprende tutti i dodici mesi dell’anno e anche tutte le età della vita. Con i dovuti distinguo legati alle varie tappe dello sviluppo, è nella ragion d’essere della categoria dell’educazione che la stessa avvenga a opera dei genitori. La Costituzione Italiana, come pure le carte sovranazionali, recepiscono questo assunto non confutato e lo pongono tra i principi etico-sociali (ad esempio art. 30). La socializzazione ha come “strumento attuativo” l’educazione, ovvero quel lavoro paziente, artigianale, di mediazione tra la sfera pubblica e quella privata dei giovani; i genitori sono gli artigiani che si prestano naturalmente a questa impresa sempre più complessa. Non è residuale la considerazione che se si acquisisce, per la sua massima interrelazione di fattori, la competenza di saper gestire la socialità familiare, quella comunitaria risulterà di maggiore semplicità e praticabilità. In unschooling la socializzazione non è di tipo scolastico e lo sviluppo delle competenze sociali, l’interazione e l’integrazione si praticano in modo molto più vario, aperto alle infinite sfaccettature e alla complessità della realtà sociale in cui viviamo. L’unschooling offre quindi senza dubbio un approccio più moderno alla socializzazione, contribuendo alla costituzione di un’identità interclassista e capace di una collaborazione efficace, intergenerazionale e inclusiva».
Foto: Anastasia Shuraeva per Pexels
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